Roma, uscita vittoriosa dalla prima guerra punica, si afferma come dominatrice del Mediterraneo e, con il crollo dell’egemonia cartaginese, come maggior potenza del mondo antico. La riscossa per Cartagine non tarda ad arrivare. Esteso il suo potere in Spagna, si apre un nuovo fronte su cui minacciare il nemico.
Violando il trattato secondo cui le sue conquiste non potevano estendersi oltre il fiume Ebro, l’esercito cartaginese comandato da Annibale, della famiglia dei Barcidi, pone sotto assedio la città di Sagunto nel 220 a.c., scatenando la reazione romana.
Con una mossa spregiudicata, Annibale valica le Alpi alla testa di 40.000 uomini. Poco più della metà degli effettivi sopravvivrà all’impresa, ma l’ingresso nei territori padani nel 218 a.c. gli garantisce l’iniziativa strategica. Sconfigge i Romani presso il Ticino e sulla Trebbia. I successi fanno accorrere tra le sue fila le tribù galliche da poco sottomesse al giogo romano e desiderose di combattere contro il nemico comune.
Varcati gli Appennini nell’anno successivo, fa cadere in trappola l’esercito consolare inviato per intercettarlo presso le sponde del Lago Trasimeno. Occultando le sue truppe tra la vegetazione, lancia l’attacco la mattina del 22 giugno colpendo la fanteria romana disposta in colonna di marcia, del tutto impreparata al combattimento. L’arrivo tardivo sul campo della cavalleria romana completa il massacro.
Roma reagisce alle sconfitte nominando dittatore Quinto Fabio Massimo. Questi decide di non affrontare il nemico in campo aperto piuttosto adotta una serie di tattiche dilatorie volte a infastidire il punico nelle sue operazioni di approvvigionamento e nei movimenti.
Trascorso il mandato dittatoriale, il senato affida ai consoli Lucio Paolo Emilio e Gaio Terenzio Varrone il compito di scacciare i cartaginesi dal suolo italico. Lo scontro finale avverrà nei pressi di Canne, un piccolo villaggio nei pressi del fiume Ofanto. La tradizione vuole che il carattere impetuoso di Varrone, peculiarità caratteriale di cui Annibale è conscio, abbia il sopravvento sulla ritrosia di Emilio nell’affrontarlo. Non si assembra un esercito di oltre 70.000 uomini per non combattere, ed è nei pressi di un piccolo villaggio chiamato Canne, sulla sponda meridionale del fiume Ofanto che si decide il destino di Roma.
Lo schieramento dell’esercito romano è quello tipico dell’età repubblicana ovvero un solido centro di fanteria pesante disposto a manipoli velato da uno schermo di fanteria leggera e le ali protette dalla cavalleria presenta qualche variante: invece delle consuete tre linee di astati, principi e triari, ne abbiamo solo due. I triari rimangono a protezione del campo maggiore romano, posto sulla sponda nord del fiume. L’altra variante è una modifica dello spazio tra i vari manipoli, minore di quella consueta, e della loro profondità, maggiore di quella normale, per evitare un eccessivo allungamento del fronte. Agli occhi dei propri comandanti questa massa ha il ruolo di rullo compressore con il quale travolgere il centro cartaginese e spaccare in due la linea nemica. Dato che il compito sembra facile, i consoli si pongono al comando delle ali di cavalleria romana e alleata, il cui compito è di contenere le controparti cartaginesi mentre i legionari massacrano i fanti avversari.
Questo Annibale lo sa. Come contenere una forza irresistibile? Lo scopriremo nel corso della battaglia.
Lo schieramento e il successivo movimento delle truppe sono un capolavoro di arte militare.
Il centro cartaginese è occupato dalla fanteria leggera, di qualità superiore a quella nemica. Dietro di loro, disposti a scaglioni si trovano i reparti di celti e iberici, in formazione mista. Alle estremità i veterani africani, una falange di lancieri addestrata a compiere complesse evoluzioni anche nel vivo dello scontro. Sul lato destro l’elusiva cavalleria leggera numida, addestrata a tempestare il nemico con i giavellotti senza arrivare mai al contatto. Sul lato sinistro squadroni di cavalieri celti e iberici.
L’apertura delle ostilità come di consueto riguarda le schermaglie tra le unità leggere, seguita poi dall’impegno delle rispettive cavallerie. Sull’ala destra romana, la cavalleria alleata comandata dal Console Varrone non riesce ad agganciare i Numidi che la bersagliano evitando il contatto, sulla sinistra invece la cavalleria romana comandata dal console Emilio è caricata dalla cavalleria cartaginese superiore per numero e qualità. La rotta è quasi immediata. Contrariamente al solito la cavalleria invece d’inseguire il nemico in fuga esegue un’articolata manovra dietro le linee nemiche andando a colpire sul retro la cavalleria alleata frantumandone la coesione. Al centro le fanterie leggere cedono il passo alle formazioni pesanti. L’impeto dei legionari è contenuto dalle formazioni miste il cui compito è di retrocedere senza scompaginarsi. La mischia al centro evolve con difficoltà anche a causa degli stili di combattimento diversi che i legionari devono affrontare. Gli iberici colpiscono con le loro spade di punta, mentre i galli attaccano con poderosi fendenti.
A causa della pressione ed del relativo arretramento, il centro cartaginese si trasforma in una mezzaluna. La trappola è scattata. I veterani africani in formazione serrata attaccano sui fianchi i legionari chiudendoli in una morsa fatale. Sconfitta la cavalleria alleata, Asdrubale piomba sul retro della fanteria pesante romana chiudendo il cerchio. La battaglia si trasforma in una macabra mattanza.
Le perdite romane supereranno le 50.000 unità contro le circa 6.000 subite dai cartaginesi.
Una disfatta di questa portata avrebbe fiaccato la resistenza di qualunque avversario, ma non di Roma. La repubblica, forte della sua supremazia navale, porterà la guerra in Spagna e successivamente in Africa, dove sconfiggerà l’odiato nemico nel 202 a.c. a Zama ponendo fine alla seconda guerra punica.