Alla fine della 1° Guerra Mondiale, in molti paesi non si cessò di combattere. Uno di questi era la Polonia, una giovane e battagliera repubblica nata dalle ceneri della Grande Guerra, dopo oltre 150 anni di ininterrotto dominio da parte di Russia, Austria e Germania che si erano spartito il suo territorio e cancellato il suo nome dalla carta geografica.
Alla fine della guerra, questi tre grandi imperi non esistevano più, così per i polacchi – che erano stati costretti a combattere in opposte trincee, a seconda della regione in cui erano nati – si aprì la strada dell’indipendenza. Ma di sangue doveva esserne versato ancora molto.
All'inizio del 1920 la guerra civile che aveva insanguinato e spopolato la Russia stava volgendo al termine con la vittoria dei comunisti, più efficienti e organizzati, ma non per questo Lenin era intenzionato a conseguire una pace. La situazione, infatti, si presentava estremamente favorevole per un trionfo della Rivoluzione in tutta Europa. Gli Stati nati dopo la disintegrazione degli Imperi (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria) non avrebbero potuto resistere a un'offensiva dell'Armata Rossa.
Il 14 febbraio Lenin prese la decisione definitiva di attaccare e cinque giorni dopo fu creato il comando del fronte occidentale. 65.000 uomini ben armati ma male equipaggiati (ben presto portati a 100.000) vennero ammassati ai confini e il loro obbiettivo fu reso ben chiaro da una frase del loro comandante, il giovane e ambizioso generale Michail Tuchacevskij (1893-1937): «Il sentiero della conflagrazione mondiale passa sul cadavere della Polonia». Commissario politico del fronte sud era Josef Stalin.
Il servizio segreto polacco, intercettò diverse comunicazioni riguardanti l'imminente offensiva e il generale Józef Pilsudski, capo dello Stato polacco e comandante supremo delle forze armate, decise di sferrare un attacco preventivo contro il fronte ucraino il 25 aprile 1920. Ogni resistenza fu superata e, il 6 maggio, i polacchi entravano in Kiev, preparandosi ad armare ed equipaggiare un esercito ucraino.
Ma la controffensiva sovietica non si fece attendere e venne condotta dalla sua unità più temibile, l'Armata a Cavallo di Semjon Michailovic Budjonny. Il 27 maggio, dopo aver effettuato una marcia di trasferimento di 1.400 chilometri in cinquanta giorni, la cavalleria sovietica si avventava sui reparti polacchi che vennero costretti a una lenta ritirata che, però, non divenne mai rotta disordinata.
Il 13 agosto l’Armata Rossa era davanti alla capitale polacca, che costituiva l’ultimo baluardo contro la sua avanzata: difendere Varsavia voleva dire salvare l’onore e l’indipendenza; respingere i russi significava la fine della guerra.
Il generale Joseph Pilsudski, inchiodando il centro nemico lungo il fiume Vistola, investì il fianco russo con un’ampia manovra aggirante da sud condotta dal generale Sikorski, che risalì verso nord spazzando via tutte le unità che stavano per entrare in Varsavia, obbligando l’Armata Rossa ad una precipitosa e disastrosa ritirata: il "Miracolo della Vistola" si era compiuto.
Chi non dimenticò la sconfitta subita dall'Armata Rossa fu Stalin che, nel 1940, ordinò la soppressione di 20.000 ufficiali polacchi nei boschi di Katyn. Fra essi vi erano moltissimi veterani della battaglia di Varsavia che costituivano la classe dirigente ed intellettuale polacca.
Note
Mentre l’Armata Rossa non era dotata di vere e prioprie uniformi (salvo i residuati dell’esercito zarista), i polacchi indossavano le divise mutuate dagli imperi austriaco e tedesco per cui avevano combattuto durante la Grande Guerra. La maggior parte delle forniture provenivano dalla Francia, in parcolare quelle della Legione Azzurra del generale Haller, che durante il conflitto si era battuta sul fronte occidentale conro gli Imperi centrali.
Testo: Renato Genovese
Miniature (Copplestone, Brigade Games, Siberia Miniatures): Luciano Leni, Renato Genovese (e Tommy Nicosia)
Realizzazione terreno ed elementi scenici: Alberto Cecchetti